La fotografia come “arte applicata”?

Pagine di Fotografia Italiana | N. 7 – Autunno-Inverno 2006
Articolo di Fabio Castelli. Download pdf >>

Due articoli – a firma di Gianluigi Colin e Arturo Carlo Quintavalle – apparsi sul “Corriere della Sera” del 12 luglio 2006, hanno suscitato l’interesse di quanti in Italia si occupano, a vario titolo, di fotografia. L’argomento inquestione a noi sta particolarmente a cuore tanto che, nei suoi aspetti sostanziali, lo abbiamo già affrontato sul numero 2 (Autunno 2004) di questa pubblicazione: si tratta di definire gli ambiti entro i quali le singole tipologie della fotografia possono coesistere nel mercato stabilendone il reale valore secondo alcuni parametri unanimemente riconosciuti.I due articoli commentano la mostra “ Off Broadway” tenuta in estate presso il Padiglione d’Arte Contemporanea
(PAC) di Milano. A noi non è parso che questa mostra abbia aiutato a fare chiarezza. Anzi sotto certi profili aggiunge confusione contribuendo ad alimentare l’incertezza nella quale si trovano molti appassionati di questo mezzo espressivo.
L’esposizione propone le opere di sei giovani reporter dell’agenzia Magnum ed è curata da Denis Curti e Roberto Kock.
La prima domanda che viene in mente è perché non sia stata utilizzata la bella e prestigiosa sede di “Forma” e
l’esposizione sia stata invece allestita presso il PAC, quasi a voler suggellare la caratteristica “artistica” della mostra.
Sarebbe stato molto più chiaro, a proposito delle fotografie in mostra, non parlare di fotografie di reportage ma affermare con chiarezza che esse sono state create con intento artistico.
Uno degli autori in mostra, Christopher Anderson, afferma, nell’articolo di Colin, che «Oggi il fotografo può essere considerato più portavoce di sentimenti che il protagonista della spiegazione degli eventi»: allora se un fotoreporter non vuole più esercitare il suo mestiere, che dovrebbe essere quello di documentare, ma produrre della fotografia di ricerca, ben venga, ma non vedo perché debba complicare le cose, ponendosi su un pericoloso crinale tra documentazione e ricerca e praticando, tra l’altro, in contraddizione con questa scelta di ricerca estetica, il rifiuto della firma delle fotografie.
Se questi autori vogliono aggiungere alla loro professione quella dell’artista, lo facciano serenamente, come l’hanno fatto prima di loro molteplici loro colleghi impegnati professionalmente nel mondo della fotografia pubblicitaria, Continua il dibattito sul ruolo della fotografia nella storia dell’arte La fotografia come “arte applicata”? Una mostra – “Off Broadway” al PAC di Milano – e due articoli su di essa offrono l’occasione per riflettere ulteriormente sulla percezione del linguaggio fotografico di moda, di architettura.
Abbiamo già scritto, e ribadiamo, che noi siamo convinti che se le fotografie vengono realizzate con lo scopo di fare cronaca o documentare temi d’attualità saranno foto di reportage e non foto d’arte. Se invece l’intento con cui vengono create queste opere sono di altro tipo, finalizzate quindi a suggerire un concetto, a far nascere un’emozione legata a un intimo sentire dell’autore, ebbene queste opere saranno ascrivibili al mondo dell’arte. Si è, infatti, abituati a collegare al concetto di opera prodotta da un artista, quello dell’invenzione o della fantasia, concetti a volte applicati a un substrato realistico che viene reinterpretato dalla creatività. Il contrario di ciò che vuole un fotografo di reportage il cui scopo è quello di raccontare dei fatti, tanto che la maggioranza dei fotoreporter, anche quelli maggiormente affermati, nutrono una seria diffidenza verso la definizione di “artista”. Se poi le opere realizzate con intenti artistici siano effettivamente opere d’arte o paccottiglia di nessun valore o significato sarà il tempo a deciderlo come capita per l’opera di qualsiasi artista. Non basta certo affermare che si vuol fare arte per realizzarla effettivamente. È assolutamente lecito che gli autori presenti in questa mostra al PAC abbiano avuto l’intento di fare opere da presentare nel mondo dell’arte; semplicemente lo dichiarino. Altrimenti potrebbe sorgere il dubbio che l’attrazione verso il mondo dell’arte sia dovuta esclusivamente al diverso esito di gratificazione e di trattamento economico. Nel suo articolo invece Quintavalle sintetizza il problema scrivendo: «Tutto questo ha un solo risultato, costruire artificiosamente la domanda di immagini e trasformarle, da medium di comunicazione (come sono state per oltre un secolo) a mezzo elitario». Questa tendenza in effetti la riscontriamo in tutte le altre espressioni della fotografia come per esempio la moda o l’architettura. Al proposito ho recentemente assistito a una tavola rotonda all’Istituto Europeo di Design di Milano dove erano relatori, tra gli altri, direttori di riviste d’architettura e fotografi. I direttori affermavano di avere un certo interesse ad utilizzare delle fotografie d’architettura che non raccontassero pedissequamente l’opera dell’architetto ma che invece la interpretassero filtrando la realtà attraverso il loro sguardo. Meno descrizione asettica, più lettura personale. In questo caso l’opera del fotografo si avvicina sempre più a quella dell’artista. Più ci si stacca dall’esigenza della descrizione, più ci si avvicina ad un’opera autonoma che ha come obiettivo quello di interpretare lo spirito di colui che ha creato l’opera architettonica. Sempre in questo incontro un fotografo, Saverio Lombardi Vallauri, chiedeva ai potenziali committenti se non sia possibile affidare incarichi molto elastici ed ampi, in modo che i fotografi non si sentano troppo obbligati e vincolati nel dover seguire l’esigenza di documentazione a favore di una maggiore creatività.
Forse però è utopico pretendere di essere liberi di seguire totalmente la propria creatività: sarebbe effettivamente apprezzabile e stimolante ma nella realtà ciò è assai difficile. In conclusione vediamo che in tutti gli ambiti della fotografia esiste il desiderio di poter sconfinare dall’area di specializzazione e essere accolti nell’alveo dorato del mondo dell’Arte. L’ambito della foto di moda è in questo senso emblematico ma anche la fotografia di reportage è un ambito fortemente contaminato dall’idea dell’arte. L’articolo pubblicato su questa rivista su questi argomenti e citato in apertura poneva infatti il problema delle differenze, sostanziali e formali tra la fotografia di reportage e la fotografia d’arte. In quell’occasione avevo ricordato i criteri con i quali la giuria attribuiva il più importante premio del mondo di fotografie di reportage, il World Press Photo, e facevo notare la differenza esistente con quelli utilizzati per valutare l’interesse e il valore delle opere fotografiche d’arte. La fotografia che viene utilizzata seguendo una finalità precisa, ma che allo stesso tempo riesce a mettere insieme la sua puntuale funzione documentale con un notevole spessore formale, potrebbe essere considerata facente parte della categoria delle cosiddette Arti applicate. Questo passaggio dall’onesto professionismo al fascino dell’arte è più evidente in alcune arti cosiddette minori: per esempio ricordiamo grandi ebanisti come il genovese Piffetti o il più noto Bugatti che per la bellezza dei mobili che hanno saputo costruire non possono più essere considerati dei semplici falegnami ma artisti. Così come un vetraio che produce una lampada raggiungendo le vette estetiche di una Gallè o di una Tiffany, o un orologiaio che è in grado di inventare e costruire un capolavoro come il cosiddetto “mistérieux” che diventa il famoso Cartier, non più semplice orologiaio ma mitico artista dell’oreficeria. Parlando di arte applicata mi è venuto in mente uno dei testi che Italo Zannier ha pubblicato nel volume “Segni di luce. La fotografia italiana contemporanea”, che segnaliamo nel box, in basso, su questa pagina. In questo testo si ricordano quante definizioni venivano indicate e come si era sviluppato il dibattito attorno a questi temi da quando era stata annunciata l’invenzione della fotografia, iniziando una discussione ancora attuale. Nel volume citato, soprattutto alle pagine 8 e seguenti, Zannier, con la sua consueta lucidità e chiarezza espositiva, dedica la sua attenzione alla definizione di cosa sia la fotografia ricordando i testi che già alla fine del XIX secolo trattavano di questi argomenti. In particolare è interessante l’intervento, riportato da Zannier, di Ottavio Baratti, che nel 1864 scriveva: «Se l’artista invece di fare il permaloso coll’arte-scienza le avesse stretto la mano, ed introdottala nel proprio studio, si fosse messo di proposito a studiarne l’indole, il carattere, i mezzi e l’applicazione, tanti pregiudizi si sarebbero dissipati, tante accuse, riconosciute insussistenti, non continuerebbero a ripetersi ogni giorno, e la fotografia conterrebbe molti nemici di meno e i cultori delle belle arti molte risorse di più». In fotografia gli esempi sono tantissimi e ne citiamo soltanto alcuni: i lavori di Irving Penn, creati per la pubblicità, o le immagini di Horst, scattate per le riviste di moda, o, per rimanere in Italia, come alcune di Giacomelli, quelle dei pretini, nate per una pubblicità per sigari, o quelle per la moda di Ugo Mulas. Questa tipologia di fotografie presume anche un atteggiamento diverso rispetto al numero di copie in cui l’opera stessa viene prodotta, come accadeva per le opere di Piffetti, Bugatti, Gallè, Tiffany o Cartier che non erano prodotte in un numero molto elevato di copie. Così come per le fotografie facenti parte di questo universo delle arti applicate, non si dovrebbe sentire l’esigenza di produrre numeri illimitati d’esemplari, ma anzi si dovrebbe alimentare il proprio mercato con tirature limitate. Oltretutto oggi produrre fotografie che garantiscano la durata nel tempo o che sottostiano ad alcuni criteri estetici e di conservazione – come l’uso del doppio metacrilato o delle light box – è molto costoso. Non si capisce quindi perché si debbano moltiplicare indefinitamente le immagini che per loro natura sono prodotte per un mercato elitario. Se invece l’obiettivo fosse quello di denunciare, proporre o comunicare fatti, eventi, luoghi e situazioni, usando il mezzo fotografico, sarebbe un controsenso proporre delle tirature limitate che impedirebbero il raggiungimento dello scopo primario, la divulgazione. Ma se l’obiettivo non è la documentazione a cosa servono tante copie? E, al contrario, opere che nascono con intenti divulgativi, perché farle diventare elitarie per forza?

Fabio Castelli