Pagine di Fotografia Italiana | N. 4 – Estate 2005
Articolo di Fabio Castelli. Download pdf >>
Il bisogno pericolo di certezze
“Qualche immagine era prodotta dalla conoscenza, dall’abilità, dalla sensibilità e dall’invenzione. Molte immagini, invece, erano prodotte accidentalmente, per improvvisazione, fraintendimenti o esperienza empirica. Ma che fossero prodotte per ‘arte’ o caso, ogni immagine era parte di un assalto massiccio alla nostra abitudine visiva…”
John Szarkowsky, The Photographer’s Eye, Museum of Modern Art, New York, 1963.
Accetto molto volentieri l’invito di Fabio Castelli a contribuire al dibattito sulla fotografia e l’arte che contraddistingue l’attività della galleria Fotografia Italiana. È da molti anni che non partecipo a questo dibattito per scelta personale, ma l’apertura dei nuovi spazi di Fotografia Italiana, insieme all’incoraggiamento da parte di vari amici, ha riacceso il mio entusiasmo, da anni messo da parte.
Dopo la lettura del numero 2 della rivista Pagine di Fotografia Italiana ho capito che la galleria, e la rivista che la rappresenta, vuole distinguersi per una visione che scinda il lavoro degli ‘artisti’ che usano la fotografia da quelli che utilizzano la fotografia forse per mestiere o solo per diletto, ma senza l’intento progettuale dell’artista. Cercherò in questo intervento di spiegare i limiti di questa visione e in che modo, a mio avviso, si potrebbero ampliare i confini di questa impostazione culturale senza, comunque, perdere il prestigio e la collocazione raffinata che la galleria si propone di occupare.
[…] Mi ha colpito la citazione di un intervento di Italo Zannier del 1957 che – introducendo le riflessioni di Fabio Castelli su fotografia come arte e come reportage – auspicava lo scioglimento delle divisioni, a suo avviso arbitrarie, tra fotografia d’arte, reportage o semplice commissione editoriale. Soprattutto si nota che questi limiti di visione hanno fatto sì che la fotografia italiana facesse fatica ad inserirsi nel dibattito internazionale ormai avviato da tempo. Da quell’intervento di Zannier sono passati 47 anni. Nell’articolo che segue di Fabio Castelli, “La distinzione tra arte fotografica e fotoreportage” avverto però per certi aspetti il riproporsi della distinzione tra generi. Castelli cita Zannier per sottolineare il superamento dei generi ma mi pare che questo concetto venga contestato dal suo stesso articolo. Scrive Castelli: “Così concludeva un testo di presentazione per una mostra […] Italo Zannier, sottolineando dunque quello che poi sarebbe stato meglio definito criticamente come “superamento dei generi.” Segue evidenziando quelle che lui considera le differenze tra l’arte fotografica e il fotoreportage, e cioè l’intento descrittivo dell’uno in confronto all’intento progettuale, narrativo o ancora metaforico dell’altro.
Io non trovo utili queste distinzioni anche se capisco la volontà di distinguersi tra le mille iniziative denominate ‘culturali’ che in realtà esibiscono immagini prettamente descrittive di soggetti interessanti per motivi storici o politici ma poco interessanti dal punto di vista del linguaggio fotografico o del suo contesto culturale. Fin qui sono d’accordo nel sottolineare le distinzioni ma codificare una distinzione risulta, a mio avviso, forviante sotto altri aspetti. Le distinzioni di qualità nei due ambiti sono ancorate alla cultura visiva di chi guarda l’immagine, e non al valore tra un’immagine di ‘arte fotografica’ e ‘fotoreportage’ (dove presumo ‘arte fotografica’ sia intesa come un’immagine creata intenzionalmente, con coscienza, per parlare della vita dell’autore o della vita in genere o di qualche tema attraverso la metafora dell’immagine). John Szarkowsky, illustre studioso della fotografia e abile nel districarsi con chiarezza attraverso i misteri del linguaggio fotografico (vedi The Photographer’s Eye e Mirrors and Windows), ha dichiarato nel lontano 1963, nella sua introduzione alla mostra The Photographer’s Eye, che non si può fare distinzione artistica tra i generi della fotografia in quanto è un linguaggio utilizzato in un’infinità di applicazioni e che la coscienza del fotografo non era obbligatoria per l’importanza culturale o artistica dell’immagine. Tant’è vero che con una dichiarata distinzione tra ‘arte fotografica’ e ‘altro’, non avremmo mai potuto apprezzare il lavoro di Weegee, creato esclusivamente per vendere le immagini subito ai quotidiani newyorchesi, mentre il lavoro di Garry Winogrand che ne deriva direttamente sarebbe potenzialmente opera di ‘arte fotografica’.
[…] Che sia facile produrre un’enorme quantità d’immagini che vengano riconosciute per il loro valore di puro ‘fotoreportage’ ma che non rappresentino immagini di particolare interesse per lo studioso del linguaggio fotografico o persino per studiosi storici dell’immagine, non dovrebbe sorprenderci. Mi sembra fondamentale (forse qui sta una zona d’ombra che andrebbe esplorata senza necessariamente creare delle codifiche) trovare dei parametri che non si basino solo sul gusto e le preferenze personali che possono discriminare tra immagini di valore artistico (se vogliamo usare questo termine, ma si potrebbe anche sostituire la parola ‘artistico’ con ‘valido’ oppure ‘culturale’) e non. La distinzione è fondamentale anche se una tale distinzione resta, forse per sempre, opinabile. Siamo sempre legati al nostro punto di vista inserito nel periodo socio/culturale della nostra vita. Quindi, come si valuterà l’immagine tra duecento anni rimane, per forza, ignoto.
Oltre questo problema sulla distinzione degli intenti e dei contenuti, vedo un’altra difficoltà nella distinzione proposta tra la tiratura libera e quella controllata per la qualificazione artistica delle opere. Questa distinzione crea una sorta di discriminazione tra artisti veri e non. Non tutte le persone che lavorano con onestà e intuizione con l’immagine fotografica aspirano ad essere denominati ‘artisti’. E sappiamo che basta fare qualche visita alle gallerie che espongono fotografie, per rendersi conto che non tutti coloro che si autodefiniscono artisti realizzano lavori particolarmente interessanti. Io credo che una galleria abbia il dovere di proteggere i suoi clienti attraverso una precisa limitazione dei lavori proposti, accordata con i vari artisti, ma credo, allo stesso tempo, che la riproducibilità dell’immagine fotografica possa anche rendere certi fotografi, o artisti, disponibili ad un mercato più ampio. Questo pubblico ampio, forse, è anche più interessato a seguire il linguaggio come narrativa vivente dei nostri tempi e meno incline a vivere un acquisto fotografico come fonte d’investimento. Tutte e due i mercati possono trovare posto nell’evoluzione del linguaggio fotografico. Ma non basta adeguarsi a nuove regole di tirature limitate o numerazioni esigue per lanciare progetti, immagini e artisti di opinabile valore effettivo.
[…] Basta stampare poche stampe per aumentare il valore di un’immagine? […] Se non fosse per la costruzione di una base critica aperta e non chiusa, la fotografia sarebbe ancora rinchiusa nelle sue suddivisioni superficiali tra artista e professionista commerciale, tra dilettante e la miriade di mestieri che utilizzano la fotografia per documentare eventi o oggetti. Il linguaggio della fotografia, come il linguaggio dell’immagine, è la chiave di qualsiasi selezione critica. La creazione o l’utilizzo di divisioni stilistiche è utile per comprendere certe applicazioni, ma non per dividere opere di valore da opere insignificanti. Quindi, per tornare all’argomento, è utile, sì, che certi fotografi ricorrano alla tiratura. Questo meccanismo corrisponde ad un mercato che richiede serietà e garanzie, ma non confondiamo questi meccanismi mercantili con i valore intrinseci dell’immagine fotografica.
[…]
Spero di continuare a leggere sulle pagine della rivista di Fotografia Italiana opinioni di voci autorevoli che ci aiutino a fare chiarezza in un ambiente culturale nel quale possiamo vedere fiorire le migliori espressioni fotografiche italiane e non, come è successo troppe volte in passato, vedere da un lato un ambiguo qualunquismo e dall’altro scelte troppo rigide di ‘scuole’ o stili ‘politicamente corretti’. […]
Edward Rozzo
Caro Edward, sono felice che Fotografia Italiana sia riuscita a “riaccendere il tuo entusiasmo”.
Ti ringrazio per la tua lettera che mi ha ulteriormente convinto che sia necessario produrre un grande sforzo per cercare di mettere ordine nel “mare magnum” della fotografia.
Non sarà certo attraverso una risposta ad una lettera che si potrà esaminare un discorso così complesso, anche perché, per quello che ci riguarda, tu parti da una premessa sbagliata per quanto riguarda i temi che ho cercato di affrontare nell’intervento pubblicato sul secondo numero di Pagine di Fotografia Italiana, temi relativi alla differenza tra fotografia di ricerca artistica e reportage. Il titolo che hai dato alla tua lettera, “Il bisogno pericoloso di certezze”, ne è una riprova: noi, di certezze assolute, non solo non ne abbiamo ma, al contrario di quello che tu affermi, non vogliamo per nulla scindere il lavoro degli “artisti” da quello degli “autori”, ghettizzando gli uni o gli altri.
Vorremmo invece che fossero tutti accolti con pari dignità salvaguardando le peculiarità del lavoro di ciascuno in modo che non venga creata quella confusione così nociva per il grande pubblico che rischia di uscirne frastornato. L’intenzione del mio intervento voleva sottolineare la differenza tra la fotografia di reportage e la fotografia creativa con l’obiettivo di illustrare le diverse modalità con cui avrebbe dovuto procedere chi voleva giudicarne il “senso”. Oltretutto, visto che le diverse tipologie di fotografia producono determinati effetti economici, è anche doveroso definire il più possibile i vari ambiti in modo che tutti gli operatori siano soddisfatti delle conseguenze economiche del loro operare, siano essi ideatori, venditori o compratori.
Fotografia di reportage, da quella di cronaca spicciola ai grandi avvenimenti storici o bellici, fotografia di moda, pubblicitaria scientifica e fotografia d’arte sono tutte modalità ascrivibili al grande mondo della fotografia ed hanno tutte una loro collocazione e un loro mercato.
Questa premessa implica un discorso molto complesso e articolato che merita di essere approfondito anche nei suoi aspetti storicocritici: mi è parso opportuno quindi affidare al giovane e capace studioso di arte Daniele Astrologo il tentativo di dare una risposta più esaustiva e documentata alla tua lettera. Si tratta di tratteggiare, con gli strumenti teorico-critici dell’esperto, un percorso di approfondimento, di chiarificazione nel grande magma fenomenologico della fotografia; un contributo aperto a tutti coloro che vorranno partecipare a questo dibattito.
Il fatto che Daniele Astrologo appartenga a una generazione di giovani studiosi credo sia opportuno perché i giovani sono scevri da alcuni preconcetti che albergano in molti operatori un po’ più avanti nell’età e che convivono male con la realtà che avanza e che sovverte le loro rassicuranti abitudini. Così come è più facile per un esponente delle ultime generazioni utilizzare il computer rispetto a chi ha passato l’adolescenza senza averne mai visto uno, penso che sia più agevole affrontare la complessità del ruolo, o dei ruoli, della fotografia essendosi formato in un clima culturale e di relazione in cui la fotografia è stata sempre considerata un mezzo polivalente, protagonista sia nel documentare la vita in ogni suo aspetto, sia nel contribuire a produrre arte. Spero quindi che Daniele Astrologo, libero da preconcetti ma consapevole delle difficoltà di chi ha vissuto buona parte della propria vita in contesti diversi, sia capace di trovare la chiave per aiutarci a fare maggiore chiarezza su questo complesso nodo di analisi critica che investe, ci piaccia o no, il mondo della fotografia. Diamo il via dunque, nelle pagine successive, a questa serie di interventi di Daniele Astrologo come ulteriore, speriamo utile, contributo di Pagine di Fotografia Italiana alla riflessione sul linguaggio fotografico, anche in rapporto alle sue implicazioni nel mondo e nel mercato dell’arte.
Fabio Castelli